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Riccardo Grassi: la moda alla prova del cambiamento

«Il prezzo deve essere giustificato dalla qualità». «Il problema del Sistema italiano è la mancanza di una visione internazionale». «Il Made in Italy da solo non basta più a garantire la qualità». Uno dei più esperti operatori della moda racconta a Leiweb la sua visione del futuro di un settore vitale per la creatività e per l’economia italiana

Riccardo Grassi

La moda cambia, e in fretta. E quanto è cambiata la moda non lo dicono soltanto le collezioni che, di stagione in stagione, affollano prima le passerelle e poi le vetrine dei negozi (sempre con la speranza che dalle vetrine si trasferiscano nei guardaroba, però). La moda è cambiata, e cambia continuamente, anche nei suoi rapporti, nei suoi meccanismi, nel suo percepire e nel suo essere percepita. E molto di più, il cambiamento della moda è avvenuto nel modo di venderla e di proporla prima ai mercati e poi ai consumatori.

Il mercato globale ha costretto la moda a confrontarsi con temi e a trovare soluzioni che fino a qualche anno fa erano impensabili. Per esempio, un decennio fa la Cina, l’India e il Brasile erano Paesi lontani, mete commerciali d’avanguardia: oggi rappresentano i mercati che hanno salvato i bilanci di molte aziende, molti posti di lavoro, la sopravvivenza di molti marchi. E anche restringendo tutto al mercato interno, all’Italia, un decennio fa i negozi monomarca rappresentavano un fenomeno in espansione, oggi sono una realtà fortissima nella diffusione dei marchi. Un decennio fa la crisi dei consumi si affrontava reinventando i tempi della distribuzione, oggi la crisi dei consumi è una conseguenza della grande crisi economica che, dal 2009, attanaglia il mondo . La moda è stata messa alla prova da tutti questi cambiamenti e, alla prova dei fatti, regge. Ma con quanta fatica, con quali strategie, con quanti salti di fantasia applicata di stilisti, amministratori delegati, direzioni commerciali e, non certo in ultimo, con gli operatori professionali.

Riccardo Grassi, che quando ha cominciato a lavorare nella moda ha inaugurato un nuovo modo di “rappresentare” le aziende, immettendo nel settore quel nuovo senso dello showroom commerciale che regge tuttora la sorte di molti marchi e molte aziende, ha da poco aperto il suo Riccardo Grassi Showroom a Milano (dopo aver fondato e condotto per anni lo Studio Zeta), tenendo presente le caratteristiche mutate della moda e del suo mondo. Uno special insider, quindi, con cui discutere sui cambiamenti di un mondo che rifiuta di rimanere uguale a se stesso e vivere di rendita dell’immagine e dei successi.

Quali sono, oggi, le caratteristiche imprescindibili della moda?
«Il primo vero problema che si presenta oggi agli operatori del settore è la conoscenza dei tanti e differenti mercati internazionali. Mi chiedo perché quando si lancia un prodotto di largo consumo si fanno lunghissimi indagini di mercato per il posizionamento e altri parametri necessari alla sua riuscita commerciale e per la moda questo non avviene. Per esempio, da anni in Italia si crede che il Made in Italy sia una garanzia di qualità: oggi non è più così per fattori diversissimi, tra i quali la consapevolezza, che ormai hanno gli operatori di molti mercati, che non tutto il Made in Italy ha lo stesso livello di alta qualità. Il secondo punto è il prezzo: perché oggi un prodotto della moda possa attirare il consumatore deve avere un prezzo giustificato almeno all’80% dalla sua qualità. Non basta più l’immagine: non esiste più nessun marchio che possa permettersi di vendere l’immagine senza avere la qualità del prodotto. Nessuna campagna pubblicitaria è più in grado di ingannare il consumatore. Sfilate, celebrities, meravigliose fotografie servono a costruire un contorno che da solo non basta più a vendere un prodotto della moda. La prova arriva dagli accessori: una donna non porta mai una borsa che non le piace, neanche se le viene regalata. Tutti questi nuovi parametri li sta raccogliendo quella che oggi si chiama “Moda Contemporary”».

Che cosa si intende per “Moda Contemporary”?
«È una definizione che contiene tutte quelle collezioni che esprimono molti concetti di moda in abiti che vanno in vendita con una relazione strettissima tra il prezzo e la qualità. È la strada che hanno intrapreso molti marchi americani che declinano le tendenze della moda attuale».

In questa nuova prospettiva, è cambiato anche il ruolo dello stilista?
«Lo stilista ha sempre un ruolo importantissimo, ma accanto al suo è cresciuto di importanza quello dell’uomo prodotto che ha il compito di adattare la creatività dello stilista alla necessità di proporre un prodotto che abbia un prezzo giustificato dalla qualità. Dove nel concetto di qualità rientra anche il contenuto moda».

Il Sistema Moda italiano è pronto per affrontare la sfida di un mercato globale così esigente?
«Si, se si parla di aziende e di marchi. Il problema del nostro Sistema si chiama “internazionalizzazione”, però. Basta osservare che cosa succede a Milano: nel calendario delle sfilate mancano i nomi di stilisti internazionali o i nomi di giovani stilisti attesi dai mercati internazionali. Tutto è ristretto a una italianità che non premia più. La prova è che nella seconda parte della campagna vendita, quella che si apre in contemporanea con le sfilate (i negozi e i buyers effettuano il grosso degli ordini viene effettuato con le Precollezioni durante le campagne vendita che avvengono circa due mesi prima delle sfilate, ndr), i grandi buyers internazionali non vengono a Milano ma aspettano di andare alla Fashion Week di Parigi dove sono presenti, con le loro collezioni, centinaia di marchi di tutto il mondo. E la prova è che tutti i grandi marchi internazionali, compresi quelli italiani, organizzano presentazioni ed eventi durante la Fashion Week di Parigi».

Quale rischio corre, allora il Sistema Moda Italiano?
«L’Italia corre il rischio di essere solo un Paese industriale dove si produce tutta la moda che viene mostrata e venduta altrove. Non va dimenticato, inoltre, che se è vero che molti marchi esteri producono la loro moda in Italia, è anche vero che molti marchi italiani sono di proprietà di Gruppi del lusso stranieri. Non possiamo far finta di niente e pensare, per esempio, che Gucci e Bottega Veneta o Fendi e Bulgari siano italiani. I primi due appartengono al gruppo PPR, gli altri a Lvmh: possiamo solo ringraziare François Pinault e Bernard Arnault di aver lasciato in Italia gli headquarters dei loro marchi. In Italia, proprio in conseguenza di una mancanza di visione internazionale, non è nato un gruppo del lusso».

I rapporti che definiscono la moda sono completamente cambiati, quindi. Anche l’e-commerce ha giocato un ruolo in questo cambiamento?
«Il grande successo dell’e-commerce arriva dall’aver trasformato la vendita on-line in un servizio di informazione al consumatore. Anche per questo, oggi fare il buyer di una boutique o di un department store è diventato un mestiere difficilissimo: occorre apprendere e trasferire informazioni».

È vero che i consumi del mercato italiano sono completamente fermi?
«Circa il 70% dei beni di lusso in Italia viene acquistato nelle città d’arte. E questo vuol dire, purtroppo, che a comprare lusso in Italia sono solo i turisti stranieri».

Rispetto alla crisi, ai continui cambiamenti, alle vere e proprie mutazioni genetiche di tutto il Sistema della moda, è più ottimista o più pessimista per il futuro?
«Ho aperto il mio nuovo showroom da pochi mesi e ho raggiunto ottimi risultati. Quindi, sono ottimista. Non solo per me ma per l’intero Sistema».

Intervista Michele Ciavarella

LeiWeb.it

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